Sono un essere umano, e niente di ciò che è umano mi può essere estraneo.
Publio Terenzio Afro Tweet
È possibile sentire il dolore senza farne un’esperienza psichica?
Si può “stare male” ma non sapere di cosa si sta soffrendo, né che male sia, né che senso abbia?
Questo è un po’ l’invito di Wilfred Bion quando sottolinea la necessità, da parte del clinico, di assegnare il giusto peso e la giusta attenzione al proprio “sentito non pensato“.
Se il dolore è troppo acuto, se è invivibile — e dunque non può essere sofferto — esso tende a inaridire e ad appiattire la mente fino alla paralisi: non riusciamo più a pensare.
Soffrire il dolore è un’esperienza psichica penosa che tuttavia proviamo perché questo tipo di vissuto appartiene all’umano.
Il tema principale certamente, non sta dunque nel “proteggersi” astenendosi dalla possibilità di stare a contatto con il dolore dell’altro ma, come operazione contro natura, esattamente l’opposto:
esporsi al dolore dell’altro (e al nostro) consapevoli della sofferenza che questa cosa comporta, e consapevoli alla stessa maniera di poter sopravvivere a tutto quanto è umano, comprenso il dolore.
Quello che possiamo affermare è proprio il fatto che il dolore troppo intenso, non intercettato, non compreso, non accompagnato e, dunque, non pensato può letteralmente creare una condizione angosciante, e difficile da sostentere.
Da questo punto di vista allora, la nostra capacità di soffrire il dolore è una vera e propria conquista evolutiva della mente che, nella pratica clinica, si rivela essere di fondamentale importantanza per l’efficacia terapeutica.
Una piccola nota credo sia importante come premessa, prima di approfondire il nostro tema dedicato alla supervisione.
Si tratta di una considerazione preliminare che di fatto poi inquadra il tema della supervisione all’interno di un modello, anche antropologico, che considera il nostro “stare al mondo” in generale e il nostro stare nel lavoro clinico come un costante processo di acquisizione di una maggiore consapevolezza di sé, del mondo e dell’umano in senso ampio.
L’ispirazione di viene da Carl G. Jung che considera la personalità del clinico come uno dei fattori di guarigione più importanti da osservare, coltivare, perfezionare costantemente.
Dalle parole di Jung:
«Ogni psicoterapeuta non ha soltanto il suo metodo: “è egli stesso quel metodo”. […] In psicoterapia, il grande fattore di guarigione, è la personalità del terapeuta: ed essa non è data a priori, non è uno schema dottrinario, ma rappresenta il massimo risultato da lui raggiunto.»
(Jung, Medicina e psicoterapia)
Affermare che il fattore più importante per la cura in psicoterapia sia la personalità del terapeuta significa, per il clinico, assegnare alla cura della propria personalità una cruciale ed ineliminabile condizione decisiva nella buona riuscita del trattamento.
Questo aspetto così definito mette al centro della relazione di cura l’importanza etica del clinico di porsi costantemente in una posizione di ricerca, perfezionamento e sviluppo di sé quale elemento imprescindibile e mai definitivamente concludibile, ma costantemente da rinnovare.
Questo aspetto fondamentale per il quale viene assegnata un’importanza decisiva alla crescita e allo sviluppo della personalità del terapeuta appartiene ad un preciso modello teorico-clinico di riferimento che identifica questa dimensione della cura di sé come una componente fondamentale dell’intervento terapeutico.
Sono Michele Accettella, psicologo, psicoterapeuta, analista junghiano a Roma. Da oltre 15 anni aiuto le persone a migliorare la qualità delle loro vite attraverso la crescita della personalità.
Dal 2017, in qualità di analista abilitato alle funzioni di training, aiuto psicologi e psicoterapeuti a migliorare l’efficacia dei loro interventi clinici con supervisioni individuali, anche online.
In assenza di una certa tolleranza al dolore, come in presenza di un eccesso di dolore intollerabile e/o di un oggetto che non sia sufficientemente presente, il pensiero non si attiva e il dolore psichico prende la strada dei sintomi, dell'evacuazione, dell'acting o anche rimane depositato nel corpo.
Maria Adelaide Lupinacci Tweet
Questo articolo si rivolge ai colleghi dell’area clinica che svolgono la loro attività nell’ambito della psicologia o della psicoterapia.
Il mio intento è quello di aiutarti a superare un momento critico di difficoltà all’interno del rapporto clinico con un tuo paziente quando ti rendi conto di non riuscire a pensare in termini psicologici l’esperienza o i temi che stai affrontando con la persona che hai in cura.
La supervisione, in questo senso, rappresenta un modo di far funzionare la tua mente, che ti aiuta a non perdere la capacità di pensare in senso psicologico.
La supervisione ti aiuta a non rimanere in quache modo schiacciato ad un livello meramente oggettivo dei contenuti e dei bisogni che il paziente porta all’interno della relazione di cura.
Che si tratti di una serie di colloqui clinici propedeutici alla valutazione del tuo paziente, o si tratti di un trattamento di psicoterapia in corso, la supervisione rappresenta uno strumento al servizio della cura.
La supervisione non rappresenta solo un momento di confronto e di dialogo con un altro professionista utile alla possibilità di cogliere quelli che sono i punti critici e i “punti ciechi” della relazione clinica e terapeutica in corso e che rischiano di minare l’efficacia del tuo lavoro;
la supervisione rappresenta pure, e forse soprattutto, un punto di osservazione e una modalità specifica di funzionamento della tua mente che ti permette di osservare, valutare e comprendere il significato e il senso di quanto sta accadendo nell’ora e adesso della relazione clinica col tuo paziente.
La supervisione psicologica dunque, si inquadra come una forma di acquisizione di una specifica capacità di far funzionare la tua mente nel momento stesso in cui si svolge l’incontro clinico.
Si tratta di acquisire la capacità di far funzionare adeguatamente un dispositivo psichico che agevola e sostiene l’efficacia del tuo lavoro di cura.
Quello che proveremo a considerare in questo articolo è proprio come apprendere questa specifica capacità della mente — detta appunto “super-visione” — e perché questa capacità sia fondamentale e imprescindibile per cogliere la complessità:
Vediamo insieme allora, gli aspetti significativi della supervisione psicologica.
Il rischio, ma anche il successo della cura, si trova così tra Scilla e Cariddi.Carl Gustav Jung Tweet
Nell’ambito delle cosiddette psicologie del profondo viene spesso utilizzata un’immagine per descrivere in maniera significativa la figura del terapeuta all’interno delle relazioni di cura.
Questa immagine è ripresa dal mitologema del Guaritore Ferito.
Nella mitologia greca il guaritore ferito è il centauro immortale Chirone, figlio di Crono e Fillira.
A differenza degli altri centauri tipicamente ignoranti e violenti, Chirone aveva una grande bontà d’animo, e una grande saggezza derivatagli dalla conoscenza delle scienze e della medicina.
Chirone fu anche il maestro di Asclepio e curò Achille sostituendogli la caviglia con quella di un Gigante donandogli la capacità di correre più veloce.
Il mito racconta che Chirone venne ferito ad un ginocchio durante una battaglia per una freccia avvelenata scagliata da Eracle.
Nonostante le sue conoscenze in campo medico Chirone non riesce a guarire questa ferita, e viene condannato a subire infinite sofferenze per l’eternità.
Zeus, spinto dalla compassione, lo liberò da questo supplizio, rendendolo mortale e donando la sua immortalità a Prometeo.
La vicenda di Chirone dunque, è la storia mitica di come da una sofferenza, da una ferita inguaribile, estremamente dolorosa, si possa imparare l’arte della cura.
(Se vuoi approfondire gli aspetti centrali della psicoterapia come forma specifica di cura, puoi leggere questo articolo introduttivo: Come funziona la psicoterapia. La cura attraverso le parole).
La ferita diventa allora, “feritoria“: spazio di ingresso e attraversamento per comprendere la sofferenza dell’altro, per sentire e contattare quel piano sofferto della “carne psichica” dentro la quale si esprime il dolore e la sofferenza dell’altro.
La figura del Guaritore Ferito ha dunque un duplice aspetto per il clinico:
Il terapeuta può guarire gli altri nella misura in cui è ferito egli stesso
Carl G. Jung Tweet
Da questi brevi cenni si capisce meglio come, all’interno del processo di cura:
«Anche il terapeuta è “in analisi” tanto quanto il paziente e che, essendo come lui un elemento del processo psichico della cura, è esposto alle stesse influenze trasformatrici.
Nella misura in cui il terapeuta si mostra inaccessibile a quest’influsso, è privato del suo influsso sul paziente e, se è influenzato solo inconsciamente, si forma nel campo della sua coscienza una lacuna che gli impedisce di vedere il paziente com’è in realtà.
In entrambi i casi, il risultato della cura è compromesso.» (Jung, Problemi della psicologia moderna)
L’elemento significato diventa allora propriamente questo:
laddove il clinico assume una postura della mente che, proteggersi dal dolore, si ritrae dinanzi alla sofferenza, il rischio è che il campo lasciato libero, non pensato, diventi “IL” punto cieco, inconscio, che fa naufragare la possibilità di incidere significativamente sullo sviluppo e l’efficacia della cura.
L’analista, come guaritore ferito, è continuamente vulnerabile agli aspetti complessuali del paziente che vengono “toccati”, amplificati e rivissuti entrando in risonanza con l’intimità emotiva dell’analista stesso e i suoi nuclei complessuali, le sue esperienze di vita, il suo attuale momento storico, ecc.
In parte allora, è necessario che il clinico si smarrisca, o meglio:
che una parte della sua mente si smarrisca per entrare in risonanza con gli stati primitivi della mente del paziente, dei suoi nuclei complessuali o, in senso ampio, dei suoi dolori, delle sue solitudini e delle sue angosce più profonde.
È questa, di fatto, la condizione preliminare più difficile da conquistare per la mente di un terapeuta:
maturare la capacità di oscillare, intenzionalmente, fra 3 registri di funzionamento della mente:
L’ideale sarebbe che l’oscillazione tra questi registri di funzionamneto della mente possano compiersi senza particolari difficoltà e soprattutto senza troppi blocchi del flusso del pensiero o interferenze.
Sappiamo bene quanto sia questo tipo di operazione sia complessa e difficile da riconquistare ogni volta e adeguarla alle diverse condizioni specifiche coi singoli pazienti che incontri.
Proprio come la psiche dell'analista si collega positivamente a quella del paziente, allo stesso modo può anche opporvisi
David Sedgwick Tweet
Come abbiamo visto, allora, provando a generalizzare, l’idea è quella di poter essere sufficientemente competenti nell’oscillare tra:
Si tratta allora, di patire insieme al paziente le sue angosce, i suoi terrori, le sue paure, le sue persecuzioni, ecc. e avere la capacità di assumere una visione dall’alto (super-visione), per avere contestuale consapevolezza:
Maturare questo tipo di configurazione della mente pone necessariamente la questione fondante da parte del clinico che, lasciandosi contagiare psichicamente dal portato emotivo del paziente, potrà operare su di sé questo processo nella misura in cui egli abbia avuto modo di conoscere sé stesso, il proprio mondo interno, i propri nuclei complessuali, le proprie fragilità, ecc.
Si afferma pure con questo che il clinico non sia chiamato soltanto ad esplorare, in termini descrittivi, il proprio mondo interno, ma che abbia potuto operare su di sé un processo di trasformazione facendo l’esperienza dell’attraversamento delle sue “tempeste” emotive interne.
In misura sufficientemente ampia, il clinico sarà in grado di “piegare” la propria mente assecondando le atmosfere e il campo relazionale attivato dall’incontro particolare col paziente, nella misura in cui avrà egli stesso riconosciuto e patito le sue stesse alterità.
Gli aspetti più critici da cogliere della tua mente sono proprio i punti ciechi di certi contenuti affettivi del paziente che inconsapevolmente prendono possesso della tua mente.
Possono passare ore interne, giorni interi o addirittura settimana nelle quali, mentalmente o addirittura corporalmente, ti senti catapultato e catturato all’interno di vissuti emotivi o scenari psichici dai quali non riesci ad uscire.
Ti accorgi, anche senza volerlo, di pensare continuamente al tuo paziente, senti l’angoscia per la sua condizione di vita.
Ti preoccupi per il tuo paziente.
Sia chiaro: con questa espressione non voglio certamente intendere che non abbiamo a cuore la vita della persona che abbiamo davanti, che siamo del tutto indifferenti ai suoi stati e alle scelte che compie.
Quello che si prova a sottolineare è che quando la tua mente è occupata dalla figura del tuo paziente, oltre lo spazio-tempo della seduta, significa che qualcosa dei contenuti emotivi che hanno contraddistinto il legame affettivo o l’atmosfera dell’intimità del rapporto terapeutico recentemente vissuto, ha sensibilmente stimolato, costellato un punto particolarmente complesso della tua mente.
Se questo accade significa che qualcosa di specifico sta agendo dentro di te, nel tuo mondo interno che ha una risonanza fondamentale per la cura (da un lato) e per lo sviluppo della tua personalità (dall’altro lato).
In questa condizione, tutto diviene “oggettivo”.
Le angosce del paziente vengono vissute o addirittura interpetate come mere questioni oggettive, pragmaticamente da risolvere con qualche prescrizione o buon consiglio su come vivere o cosa scegliere.
Perdi la capacità di pensare in senso psicologico.
Ogni cosa diventa “nient’altro che questo” o “nient’altro che quello”.
Non riuscire a “lasciar andare” vissuti, memorie, pensieri o altro che riguardi il paziente significa che qualcosa ha “ferito” il tuo mondo interno, catturandone l’attenzione e attivando processi viscerali emotivi intorno ai quali è difficile posare l’attenzione.
Vedere è avere a distanza
Maurice Merlau-Ponty Tweet
Pensare in senso psicologico rappresenta il punto centrale di ogni intervento clinico psicologicamente orientato.
Ma che cosa significa pensare psicologicamente?
Pensare in senso psicologico significa maturare una capacità particolare della mente di leggere in senso psichico l’accadere delle cose.
La tua attenzione e il tuo sguardo sulle cose viene orientato in una maniera particolare, focalizzando la tua lettura attraverso una lente che legge la realtà nella sua configurazione psichica.
Ogni cosa che emerge dall’incontro col paziente — la sua postura, il modo di muoversi nella stanza, l’abbigliamento, il tono della voce, l’odore, lo sguardo, le parole che sceglie, il flusso dei pensieri, le atmosfere emotive, ecc. — viene letta nella sua declinazione psichica.
Le domande utili da porsi per conservare la capacità di pensare in senso psicologoco diventano:
Questi interrogativi aprono alla prospettiva psichica fondamentale intorno alla quale è importane conservare il punto di attenzione e l’atteggiamento generale della tua coscienza quando sei a lavoro.
Il lavoro del supervisore consiste nell'aiutare i supervisionati a continuare a imparare, nonostante qualsiasi tipo di apprendimento costituisca un fardello per la propria autostima
Nancy McWilliams Tweet
Dal 2017, in qualità di analista abilitato alle funzioni di training, aiuto psicologi e psicoterapeuti a migliorare l’efficacia del loro lavoro attraverso incontri periodici di supervisione individuale in studio, oppure online.
Se stai vivendo un momento di difficoltà nel tuo lavoro clinico puoi prenotare una seduta di supervisione, anche online, scegliendo dal calendario il giorno e l’ora disponibile più adatta alle tue esigenze lavorative e personali.
Un saluto, a presto.
Michele Accettella
Sono psicoterapeuta abilitato all’esercizio permanente dall’Ordine degli Psicologi del Lazio.
In oltre 15 anni ho accumulato più di 15.000 ore di lavoro in ambito clinico, come psicologo e come psicoterapeuta.
Per diventare analista junghiano, per oltre 5 anni, sono stato anch’io in terapia, poiché per conoscere l’altro è necessaria una conoscenza approfondita di sé.
L’attenzione al lavoro clinico, ancora oggi, viene periodicamente rinnovata negli incontri riservati di supervisione che svolgo presso il “CIPA – Centro Italiano di Psicologia Analitica“: un’associazione che da oltre 50 anni cura la formazione degli psicoterapeuti junghiani in Italia, di cui sono “Membro del Comitato Direttivo Nazionale”.
Sono Psicologo Analista abilitato alla docenza, alle analisi di formazione e alle supervisioni presso la “Scuola di Specializzazione in Psicoterapia” del CIPA riconosciuta dal MUR.
Dal 2021 al 2025 sono eletto Segretario scientifico e Direttore della Scuola di psicoterapia dell’Istituto di Roma del CIPA.
Dal 2019 sono stato iscritto nell’Albo dei docenti esterni di 1° Livello – Area C di Roma Capitale.
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Ordine degli Psicologi del Lazio – n. 19065 dal 17/02/2006
Laurea in psicologia (2004) – Università degli Studi di Firenze
Abilitazione all’Esercizio della Professione di Psicologo (2006)
Università “G. D’Annunzio” Chieti-Pescara
Specializzazione in Psicoterapia ad Orientamento Analitico Junghiano (2011)
CIPA – Centro Italiano di Psicologia Analitica di Roma
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